Ond’io pian pian teco favelli, o Dea,
E con Ecate inferna, ond’hanno orrore
I cagnoletti allor, che per le tombe
Va degli estinti, e il sangue atro calpesta.
Salve, Ecate tremenda: al fianco stammi
Fino all’estremo, e fa, che i miei veneni
A quei non cedan di Medea o di Ciroe,
Nè a quelli della bionda Perimeda.
Cutretta, deh! lui traggi al mio soggiorno.
La farina sul fuoco è omai disfatta.
Ah! spargila, codarda. Ov’hai la mente?
Forse, iniqua, anche a te gioco divenni?
Spargila, e di’: L’ossa di Delfi io spargo.
Cutretta, deh! lui traggi al mio soggiorno.
Delfi me crucia, ed io su Delfi accendo
Il lauro, e com’ei crepita combusto
Da forte incendio, e ratto va in faville
Senza lasciar pur cenere, la carne
Così di Delfi si dilegui in fiamme.
Cutretta, deh! lui traggi al mio soggiorno.
Com’io vo stemperando questa cera
La divina mercè, così d’amore
Si stemperi ben tosto il Mindio Delfi.
Come questo palèo di rame gira,
Per opra di Ciprigna anch’ei non meno
Intorno alle mie soglie ognor s’aggiri.
Cutretta, deh! lui traggi al mio soggiorno,
Or farò della crusca il sagrifizio.
Ben tu, Cintia, piegar fin Radamanto
Puoi nell’Averno, e s’altro v’ha più saldo.
Latran le cagne per città. Ne i trebbi
Certo è la Diva. Ah! suona tosto il rame.
Cutretta, deh! lui traggi al mio soggiorno.
Ecco già tace il mar, tacciono i venti,
Pur nel mio petto il mio dolor non tace;
Ma tutta ardo per lui, che me non moglie