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la mollezza tradizionale dei figli d’Etruria, la poca disciplina delle truppe di linea li rendevano disadatti alla guerra, e si reputava che al primo scontro con le schiere nemiche, essi dovessero imitare il poeta del Lazio, che non si perita a confessare d’aver lasciato il campo di battaglia più che in fretta, non bene relicta parmula, gettando via l’arme per essere più spedito alla fuga.

Ma il fatto, questa prova suprema ed irrecusabile, dimostrò quanto ingiusta fosse la prevenzione che si nutriva contro il valore dei Toscani, e palesò questi esser degni di stare allato ai più intrepidi tra i figli d’Italia.

Come che la civiltà non fosse madre di tutte le virtù, e quasi che un corpo umano, per debile, per isnervato che, sia non possa divenir capace de’ più sublimi conati una volta che si senta animato da un fermo volere e dal desiderio onnipossente di acquistarsi fama d’eroe.

Il coraggio che viene dalla riflessione non è forse il più nobile e il più persistente, e v’ha egli forza fisica più idonea a compier prodigi di quella che si appoggia sulla energia morale?

E in vero i Toscani che si trovavano chiusi entro le appena disegnate trincee di Curtatone, erano pochi di numero, mal disciplinati in effetto, e mediocremente armati. Eppure, venticinque in ventotto mila uomini di truppe austriache attaccarono quel pugno di valorosi, dei quali si facevano beffe, e che pensavano disperdere, sol col mostrarsi. E i Toscani ristrettisi l’un contro l’altro, opposero una resistenza delle più meravigliose, combattendo e cadendo feriti e spirando l’anima col sorriso sulle labbra, e col grido di viva Italia mormorante sulle esanime bocche. Tanto che il nemico dovette perdere tutta una giornata a superare un ostacolo ch’ei credeva non dover neppure contare come una difficoltà. Inutile dire quante vittime cadessero in quella fazione gloriosa. E il Chigi fu una di esse; ei s’ebbe la mano destra così fracassata da un pezzo di mitraglia, che l’amputazione fu subito giudicata indispensabile a salvare la vita. Venne