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Ermanno si sentiva commosso nel mirare quella fanciulla così bella e felice; l’occhio del giovane errava spesso a fare, un’esame troppo scrutatore di quelle bellezze, talchè Laura accorgendosene ne arrossiva sorridendo, mentre con infantile civetteria si guardava negli specchi.
Il tempo, quel giudice crudelmente imparziale segnò le undici ore sull’inesorabile Clepsidra, ed una torre lontana rispose a quel segno a colpi di squilla.
— Undici ore? chiese Letizia.
— Propriamente, rispose Alfredo guardando il pendolo.
— Diggià! mormorò Laura un po’ uggiosa.
— Allora, disse Ermanno alzandosi, me ne vado.
— Oh non ancora, sclamò Laura, bisogna suonare anco una volta il notturno.
Ermanno si rimise al piano, e Laura riprese la stessa positura. Il notturno era piuttosto lungo, e la stagione non troppo favorevole per una lunga fatica al piano, per cui alla fine del pezzo Ermanno aveva la fronte madida di sudore; Laura se ne accorse, titubò alquanto, guardò prima Letizia, poi Alfredo; indi per un moto quasi involontario trasse il fazzoletto e lo passò leggermente sulla fronte del giovane pianista, il quale la ringraziò con un dolce sorriso.
Ermanno non si potè partire da casa Ramati senza prima aver promesso di tornarvi alla dimane, ed ancora mentre stava per scendere le scale, Laura trattenendolo per mano sclamò: Si ricordi che l’aspettiamo!