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lì si stava riparati come in una gabbia; vento e nebbia da tutte le parti, e dai piedi, su per la strombatura dei calzoni, si insinuava una brezzolina umida così, che dava la sensazione di essere nell’acqua fino alle ginocchia.

Cisti, che frecc de can!

Martina non rispose. Un tic tic molesto le presagiva una giornataccia di mal di denti. Tuffava il naso paonazzo nello scialle, chiudeva le labbra per non abboccare il freddo, ma il picchio molesto seguitava e cresceva.

Sopra coperta rimanevano pochi viaggiatori; tutti gli altri si erano rifugiati nello scompartimento di sotto. Ma i Gibella ignoravano affatto che ci fosse un ricovero per i passeggieri, e stavano là al timone, appoggiati contro la ringhiera, come librati fra cielo e acqua, con l’infinito aperto e tutti i venti nella schiena, flagellati da tutte le parti da quella strina invernale tagliente come vetro.

La gita alpestre del giorno innanzi li aveva addirittura ammazzati.

Pareva niente la stanchezza, quando si misero a letto dopo quella rampicata di parecchie ore sulle roccie, ma all’indomani si svegliarono pesti, con certi indolenzimenti muscolari, che li mettevano a terra.