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venire alla conclusione che quando ci arride la sanità del corpo e della mente, si è già al di là della fortuna.

E pensare che c’è della gente impappinata nei pregiudizii più assurdi; pensare che certi onesti vanesii, saltando un fossatello, dicono: — Di la c’è la marmaglia, la plebaglia, la canaglia... di qui ci sono io, ci siamo noi, noi privilegiati, noi galli della checca, stampati in disparte come le lasagne del papa!

Oh via, lasciamo andare, e compiangiamo quelle povere cellule ritardatarie, ultimi detriti di un mondo già seppellito da gran tempo. Lasciamo ognuno nelle sue idee, e tu caro Agostino, accetta la dedica di questo libro allegro, germogliato nella letizia di una gioconda scampagnata.

Compagno nella gita era il nostro caro Giuseppe Fondini, anima eletta di artista fine e delicato, cuore fervente di entusiasmi e di gentilezze soavi.

Te lo rammenti? povero giovane! era la nota gaja, festosa della nostra comitiva; osservatore sagace, acuto, ghermiva il vero a volo, e lo rendeva con originalità d’immagini felicissime, pennellate e verniciate di un umorismo che è privilegio di pochi... Poveretto... povero Dionigi!

Ora egli è morto da sei mesi, tu sei balestrato sui costoloni dell’Appennino meridionale; ed io rimango qui a fare dei duetti prolissi col mio buon amico Eugenio Barbera, geometra, segretario comunale, benemerito diffonditore in Italia della Legatrice dei covoni,