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era vero. Dopo le nozze, appena fuori della chiesa, gli sposi avevano incominciato a baciarsi coram populo fino a tumefarsi le labbra.

Da Milano a Ginevra, da Ginevra a Orta, in vettura, in strada ferrata, sui piroscafi, nelle chiese, sui campanili, nei pubblici passeggi, dovunque, non avevano fatto che leccarsi, sdilinquire in abbracciamenti, portando sulla piazza come in pantomima la strabocchevole tenerezza della loro luna di miele.

La Zina era una figurettina sciolta, flessuosa; l’occhio mobile iniettato di striscioline sanguigne, visettino sodo, aperto, incorniciato in una inciuffatura fitta di capelli bruni, lucenti, ma nel tutt’insieme, e fin nell’andatura ancheggiante, aveva l’impronta di un temperamento focoso più accessibile alla prepotenza dei sensi, che non alle compressioni ed alle temperanze della buona educazione.

Volere, per lei, era potere, più nessuno rifiatava dinanzi alle sue esigenze; ed ora che aveva nelle mani il suo Errico smilzo, smorto, mingherlino, ella lo baciava, lo succiava, lo adunghiava con tutto l’impeto irruente della sua incontinenza.

— Noi siamo ricchi — gli aveva susurrato in un momento d’ebbrezza — tu non devi pensare che a rendermi felice, ad amarmi, ad abbracciarmi! Al resto provvede il papà.