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dialogo ii. 47
di protosofosso, volsi far di maniera, che chiunque mi studiasse ne la natural filosofia, ne la qual fui e mi sentii a fatto ignorantissimo, per inconveniente o confusion, che vi scorgesse, se non avea qualche lume d’ingegno, dovesse pensare e credere, ciò non essere la mia intenzion profonda, ma più tosto quel tanto, che lui secondo la sua capacità posseva da li miei sensi superficialmente comprendere. Là onde feci, che venisse publicata quella lettera ad Alessandro, dove protestavo, li libri fisicali esser messi in luce, come non messi in luce.
Seb.
E per tanto voi mi parete aver isgravata la vostra coscienza, ed hanno torto questi tanti asinoni a disporsi di lamentarsi di voi nel giorno del giudizio, come di quel, che li hai ingannati e sedutti, e con sofistici apparati divertiti dal cammino di qualche veritade, che per altri principj e metodo arebbono possuta racquistarsi. Tu li hai pure insegnato quel tanto ch’a diritto doveano pensare: chè, se tu hai publicato, come non publicato, essi, dopo averti letto, denno pensare di non averti letto, come tu avevi così scritto, come non avessi scritto: talmente quei cotali, ch’insegnano la tua dottrina, non altrimenti denno essere ascoltati, che un, che parla, come non parlasse. E finalmente nè a voi deve più essere atteso, che come ad un, che ragiona e getta sentenza di quel che mai intese.
Onor.
Cosi è certo, per dirti ingenuamente, come l’intendo al presente. Per che nessuno deve essere inteso più ch’egli medesimo mostra di volersi far intendere, e non doviamo andar perseguitando con l’intelletto color che fuggono il nostro intelletto, con quel dir, che parlano certi per enigma o per metafora; altri, per che vuolen, che non l’intendano gl’ignoranti, altri, per che la moltitudine non li sprege, altri, per che le margarite non sieno calpestrate da porci; siamo dovenuti a tale, ch’ogni Satiro, Fauno, malenconico, imbriaco ed infetto d’a-