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stino stato, anzi confermando alle nostre città ed a’ paesi dipendenti le loro regalie.

La libertà, che fu sempre riguardata come uno de’ primi elementi dell’esistenza, andò suggetta nel medio evo a diverse vicende. Essa vendevasi come una proprietà e si potea vincolare per tutta la vita, e per un tempo determinato. Avveniva sovente che persone libere, cadute in miseria, vendevano la libertà. Alcuni erano ridutti in servitù o per forza o per inganno, altri, oppressi dai feudatarj, rinunciavano a questi spontaneamente la libertà, stimando minor sciagura l’obedire ad un polente patrocinatore, che vivere in una indipendenza mal sicura. Frequenti poi furono i casi di persone che, non potendo sodisfare i loro debiti, davano in pegno al creditore la propria libertà. Ora questo facile passaggio dalla libertà alla servitù somministra una ragione di sostegno al riflesso suggerito dalle pergamene dal IX al XII secolo, dove trovasi di rado l’espressione di uomo libero. Per lo che si viene a sempre più assodare l’opinione, che la classe de’ servi (la più numerosa ne’ villaggi di Lombardia) non componeasi già solamente di contadini, ma altresì di artigiani. Non debbonsi però confundere i servi della gleba co’ veri schiavi. La terra di Busto allora contava parecchi servi e giornalieri addetti alla cultura de’ campi. La classe però degli uomini liberi non progrediva verso la civiltà che lentamente. È solo dopo il secolo XII che in Busto trovansi tracce del commercio del ferro e della lana, e più tardi di quello della bambagia; è in allora che i piccoli proprietarii e li artigiani dei Communi lombardi, non ancora indipendenti, cominciano a sentire i benefici effetti delle arti, e a procurarsi con l’industria la libertà. Di quì divenne frequente il costume di affrancare i servi, il quale era