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diletta al senso, è non però la stanza
a l’alma, che mi prega pur ch’i’ mora.
Il mondo è cieco e ’l tristo esempro ancora5
vince e sommerge ogni prefetta usanza;
spent’è la luce e seco ogni baldanza,
trionfa il falso e ’l ver non surge fora.
Deh, quando fie, Signor, quel che s’aspetta
per chi ti crede? c’ogni troppo indugio10
tronca la speme e l’alma fa mortale.
Che val che tanto lume altrui prometta,
s’anzi vien morte, e senza alcun refugio
ferma per sempre in che stato altri assale?
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S’avvien che spesso il gran desir prometta
a’ mie tant’anni di molt’anni ancora,
non fa che morte non s’appressi ognora,
e là dove men duol manco s’affretta.
A che più vita per gioir s’aspetta,5
se sol nella miseria Iddio s’adora?
Lieta fortuna, e con lunga dimora,
tanto più nuoce quante più diletta.
E se talor, tuo grazia, il cor m’assale,
Signor mie caro, quell’ardente zelo10
che l’anima conforta e rassicura,
da che ’l propio valor nulla mi vale,
subito allor sarie da girne al cielo:
ché con più tempo il buon voler men dura.
297
Se lungo spazio del trist’uso e folle
più temp’il suo contrario a purgar chiede,