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(261) rime 123

     Qual più giusta cagion dell’amart’io5
è, che dar gloria a quella eterna pace
onde pende il divin che di te piace,
e c’ogni cor gentil fa casto e pio?
     Fallace speme ha sol l’amor che muore
con la beltà, c’ogni momento scema,10
ond’è suggetta al variar d’un bel viso.
     Dolce è ben quella in un pudico core,
che per cangiar di scorza o d’ora strema
non manca, e qui caparra il paradiso.


260

 
     Non è sempre di colpa aspra e mortale
d’una immensa bellezza un fero ardore,
se poi sì lascia liquefatto il core,
che ’n breve il penetri un divino strale.
     Amore isveglia e desta e ’mpenna l’ale,5
né l’alto vol preschive al van furore;
qual primo grado c’al suo creatore,
di quel non sazia, l’alma ascende e sale.
     L’amor di quel ch’i’ parlo in alto aspira;
donna è dissimil troppo; e mal conviensi10
arder di quella al cor saggio e verile.
     L’un tira al cielo, e l’altro in terra tira;
nell’alma l’un, l’altr’abita ne’ sensi,
e l’arco tira a cose basse e vile.


261

 
     Se ’l troppo indugio ha più grazia e ventura
che per tempo al desir pietà non suole,
la mie, negli anni assai, m’affligge e duole,
ché ’l gioir vecchio picciol tempo dura.