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dialogo secondo 43

le sue fissure e rime d’ogni canto. Noi risimo, ma dio sa come

Annibal, quando a l’imperio afflitto
Vide farsi fortuna sì molesta,
Rise tra gente lacrimosa e mesta.

Pru. Risus sardonicus!

Teo. Noi, invitati sì da quella dolce armonia, come da amor, li sdegni, i tempi, e le stagioni, accompagnammo i suoni con i canti. Messer Florio, come ricordandosi de’ suoi amori, cantava il «Dove vai, senza me, dolce mia vita?» Il Nolano ripigliava «Il Saracin dolente, oh feminil ingegno» e via discorrendo. Così a poco a poco, per quanto ne permettea la barca, che, ben che dalle tarle ed il tempo fusse ridutta a tale, ch’arebbe possuto servir per subero, parea col suo festina lente tutta di piombo, e le braccia di que’ due vecchi rotte, i quali, ben che col rimenar della persona mostrassero la misura lunga, nulla di meno con i remi faceano i passi corti.

Pru. Optime descriptum illud festina, con il dorso frettoloso di marinari, lente, col profitto de’ remi, qual mali operarii del dio de gli orti.

Teo. A questo modo avanzando molto di tempo e poco di cammino, non avendo già fatta la terza parte del viaggio, poco oltre il loco, che si chiama il Tempio, ecco che i nostri padroni, in vece d’affrettarsi, accostano la proda verso il lido. Dimanda il Nolano: Che voglion far costoro? voglion forse riprendere un po’ di fiato? E gli venne interpretato, che quei non erano per passar oltre; perchè quivi era la lor stanza. Priegò, e ripriegò, ma tanto peggio; perchè questa è una specie di rustici, nel petto de’ quali spunta tutti i sui strali il dio d’amor del popolo villano.