verità, dove non bisogna, è voler, che il volgo e la sciocca moltitudine, da la quale si richiede la pratica, abbia il particular intendimento; sarebbe come volere, che la mano abbia l’occhio, la quale non è stata fatta da la natura per vedere, ma per oprare, e consentire a la vista. Così, ben che intendesse la natura de le sustanze spirituali, a che fine dovea trattarne, se non quanto che alcune di quelle hanno affabilità e ministerio con gli uomini, quando si fanno ambasciatrici? Ben che avesse saputo, che a la luna ed altri corpi mondani, che si veggono e che sono a noi invisibili, convenga tutto quel che conviene a questo nostro mondo, o al meno il simile, vi par che sarebbe stato ufficio di legislatore di prendersi e donar questi impacci a’ popoli? Che ha da far la pratica de le nostre leggi e l’esercizio de le nostre virtù con quell’altri? Dove dunque gli uomini divini parlano, presupponendo ne le cose naturali il senso comunemente ricevuto, non denno servire per autorità, ma più tosto, dove parlano indifferentemente, e dove il volgo non ha risoluzione alcuna. In quello voglio, che s’abbia riguardo a le parole de gli uomini divini, anco a gli entusiasmi de’ poeti, che con lume superiore ne han parlato, e non prendere per metafore quel che non è stato detto per metafora, e per il contrario prendere per vero quel ch’è stato detto per similitudine. Ma questa distinzione del metaforico e vero non tocca a tutti di volerla comprendere, come non è dato ad ognuno di posserla capire. Or se vogliamo voltar l’occhio de la considerazione a un libro contemplativo, naturale, morale e divino, noi trovaremo questa filosofia molto favorita e favorevole. Dico ad un libro di Giobbe, qual’è uno de’ singularissimi, che si possan leggere, pieno