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solo della loro azione sugli oggetti, ma della loro realtà obbiettiva. Taccio per ora, dovendo tornarci su più innanzi, delle altre prove di questo genere, e rammenta soltanto che i fantasmi furono fotografati. Prevengo, com’è mio dovere, che la fotografia dei fantasmi è per ora uno dei fatti a cui credo per forza di testimonianza; ci credo perchè, avendo io verificato fino a trenta, crederei di meritare un premio di cocciutaggine rifiutando ancora l’assenso al trentuno, quando mi è affermato da molte buone testimonianze, fra cui quelle di Crookes e di Wallace. Chi vuol veder subito una ricca collezione di testimonianze, consulti il primo volume dell’opera già citata di Aksákow. Ora un’allucinazione non si può fotografare. La lastra fotografica non può essere allucinata. Non pretendo con ciò stabilire la realtà degli spiriti e nemmeno quella dei fantasmi; di ciò discorreremo a suo tempo; voglio dire che una lastra non può allucinarsi di per sè, per effetto della sua immaginazione esaltata; che essa non produce un’immagine senza un’impressione esterna; che dunque anche il fantasma che vedo io non è l’esaltazione di un’immagine mia, ma un’impressione esterna sui bastoncini e sui coni delle mie retine; che dunque non è un’allucinazione nel senso ordinario della parola.
Perciò concludo che, se i fenomeni medianici sono allucinazioni, non ci sarà più mezzo di contraddirmi se io sostengo che anche il duomo di Milano è un’allucinazione completa, collettiva, ripetuta, permanente e fotografabile