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state importate secondo Varrone (in August. Civ. D. VII, 35); non della necromanzia dei Babilonesi1.

Ma si sa che l’evocazione dei morti era praticata dagli antichi Ebrei, poichè il Deuteronomio la vieta (18, 10), e Saul ha consultato l’ombra di Samuele evocata dalla maga d’Endor (Giuseppe, Ant. Giud. VI, 14, 2). In Grecia credevano alle apparizioni dei morti non solo il volgo, ma i filosofi, specialmente i platonici, e prima i pitagorici: questi dicevano perfino di meravigliarsi che alcuno dicesse di non aver mai visto un demone (Apul. de Soc., c, 20, allegando Aristotele); perfino Democrito diceva che agli uomini si presentano dei fantasmi visibili e udibili (ἐίδωλα θεωροὑμενα καὶ φωνὰς ὰφιἑντα, Sesto contro i Mat. IX, 19. Cir. de nat. Deor, I, 120), annunciando il futuro. L’evocazione dei morti vi era poi antichissima; già Ulisse li evoca nell’Odissea (XI, 23.50); poi i psuchagogoì li evocavano nei templi. I sacerdoti e filosofi alessandrini evocavano spiriti di ogni specie, (teurgia, goezia e negromanzia); il Wallace cita un passo di Iamblico che sembra la descrizione di una seduta col medio Home. Quanto ai Latini, che alle apparizioni credesse il volgo, lo prova la Mostellaria di Plauto; tra gli scrittori ne parla Plinio. Le evocazioni (νεκυομαντετα) di immagini parlanti dal profondo Acheronte si praticavano e in repubblica e sotto l’impero, e lo sanno Cicerone (Tusc. I, 37) e Orazio (Sat. I, 8, 24, ss.); e le descrive {{Ac|Marco Anneo Lucano|

  1. Iamblico nella Bibl. di Fozio, cod. 94, pag. 75 ed. Becker).