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G. C.

Ch’entri in quest’aurea sede,
Che il nettar sugga, che tra’ Numi seggia,
Or che tra l’ordin divo omai già doma
Tace Discordia, a lui Giunon concede,
Purchè lungo urli ’l mar fra Troia e Roma;
Purchè alle teucre insulti urne la greggia;
E le belve e’ lor part impune il nido
V’abbian;

Agli astri ci salga, e le dolcezze apprenda
Del nettar, fonte d’immortal riposo,
E del bel numer un fra i Numi splenda;
Io non dissentirò. Ma procelloso
Un vasto mar da Roma Ilio sepári
E alle tombe di Priamo e di Pari
L’armento faccia insulti
E vi celin le belve i parti inulti.

Nel Gargallo non ti piacerà quel giochetto sugga-seggia; ti moverà sdegno la parafrasaccia: Or che tra l’ordin divo ecc. nè approverai l’ammanierato fiorentinismo e’ lor. Che diremo del sesto verso? Giunone, per far intendere Troia esser caduta nell’ira del cielo pe’ suoi delitti, in luogo di lei nomina Priamo e Paride; questi infame per lo ratto di Elena, quegli per l’indole frodolenta, dal padre, secondo ella credeva per odio, discesa, nel figlio. Le somiglianti particolarità formano il bello dello stile poetico, ed in ispecie dell’oraziano. Il Gargallo, nominando le urne teucre, universaleggia, e fa grande scapito d’evidenza. Come giudichi della seconda versione? non ti prova ella che il Colonnetti sa gustare le più segrete bellezze del suo poeta? Nondimeno io non posso tacergli che l’espressione: da Roma Ilio sepári mi torna assai fiacca in paragone della latina: inter saeviat Ilion Romamque. È vero che traducendo la quasi medesima idea, ripetuta più sotto, se ne rifà: chè dove il testo ponè: quá medius liquor secernit ecc. egli lo vantaggia di eleganza e di forza, ponendo: dove tra il Mauro e il lito Ispano Ferve sdegnosa l’onda. Ma siami lecito aprirgli una mia considerazione; sottile, ma vera: ed è questa. Che quando Orazio ha voluto significare il molto spazio che corre tra Roma e Troia, ha scelto parole (longus saeviat pontus) che bene dipingessero l’ampiezza dei mari mediterranei, che distaccavano quelle due grandi città; per converso accennando allo stretto di Gibilterra, ne usò tre affatto comuni (medius liquor secernit), appropriate all’umiltà della cosa; mettendo in pratica la bella dottrina ch’egli apprese ai Pisoni.

G. C.

....regnar si veggia
Lieta l’esule gente in ogni lido,
Eterno il Campidoglio,
Servo de’ Medi ’l trionfato orgoglio.
Di Roma il nome gridi,
E ne tremi del mar l’ultima sponda;
Dove i frapposti gorghi ondeggian ampi
Fra l’Europa e i divisi afri Numidi;
Dove tumido il Nilo irriga i campi.

Esule dalla Frigia, abbia felice
Il popol nuovo in qual sia loco impero;
Rifulga eterna la Tarpea pendice,
E possa ai Medi trionfati il fero
Lazio dar leggi, orrendo al più lontano
Confin dove tra il Mauro e il lito Ispano
Ferve sdegnosa l’onda,
E dove i campi il gonfio Nil feconda.

Niuno potrà negare che, levando via dalla Frigia (inutile aggiunta, e forse dannosa, perchè circoscrive l’idea dell’esilio) sia tutta elettissima cosa la traduzione del signor Colonnetti. Nell’altra è stravagante in eccesso la locuzione regnar