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in suo nome. Comeché sia più ardita questa immagine, pure io son certo che a tutti parrà gentilissima e verisimile, onde il medesimo dovrebbe pur dirsi di quella del Bonarelli. Ma si puٍ forse opporre che il Petrarca parla a dirittura, né intro- duce altri a parlare all’improvviso, e che i pastori di Teocrito e di Virgilio cantano e non favellano familiarmente. Il cantar loro è lo stesso come se fossero poeti immediatamente par- lanti; onde lor si conviene maggior libertà d’immaginare che a quegli che sono introdotti a favellar dimesticamente fra loro. Ciٍ è vero, ma fa d’uopo ancora osservare come il Bonarelli ci rappresenta il suo Aminta. Ce lo fa egli vedere in un delirio amoroso, e ragionante fra se stesso, non con altre persone, in un soliloquio. Ora in tale stato la fantasia si lascia libe- ramente portare ad immaginar leggiadre, belle e spiritose pazzie, poco badandosi dall’intelletto s’ella s’inganni. Senza che, quando noi parliamo internamente fra noi stessi (come fa in effetto Aminta, benché si faccia udire al popolo quel suo ragionamento interno per una licenza introdotta da’ poeti ed approvata nel teatro), non avendovi persona che ascoltando ne dia, per cosi dir, suggezione, la fantasia volentieri vaneggia e liberamente delira. Ciٍ si scorge per isperienza non solo negli amanti, ma negli avari, ed in chi è preso da vaste spe- ranze di crescere in fortuna, perché allora la fantasia dolce- mente sogna vegliando e s’immagina mille dilettevoli e strane cose, che parlandosi con altrui verisímilmente poi non si di- rebbero, per non acquistar titolo di pazzo. Cosi la fantasia d’Aminta in un soliloquio, essendo rapita da un amoroso delirio, immagina di poter conoscere ove sarà passata Celia, in veggendo quivi più folti i fiori, in sentendo l’aria più dolce. Segue con altre immagini a delirare; ma poi, ravvedendosi alquanto l’intelletto de’ vaneggiamenti della fantasia, dice appresso: Ma, stolto! in van raggiro gli occhi al cielo, a la terra: veggio ben gigli e rose, e veggio il sole, ma Celia non appare.