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[St. 35-38] libro iii. canto iv 61

         Se a Dio, che è mio segnor, piace ch’io mora,
     Fia il suo volere, io sono apparecchiato;1
     Ma questa è sol la doglia che mi accora,
     Che perir veggio il popul battezato
     Per man di gente che Macone adora.
     O re del celo, mio Segnor beato,2
     Se il fallir nostro a vendicar ti mena,
     Fa che io sol pera e sol porti la pena.

         Ciascun di quei baron che Carlo ascolta,
     Piangono anco essi e risponder non sciano.
     Già la schiera reale in fuga è volta,
     E’ boni e tristi in frotta se ne vano.
     La folta grande è già tutta ricolta
     Ove Rugiero e ’l sir de Montealbano
     Facean battaglia sì feroce e dura,
     Che de questi altri alcun de lor non cura.

         Ma tanto è la ruina e il gran disvario3
     Di quella gente, e chi fugge e chi caccia;
     Chi cade avanti, e chi per il contrario,
     E chi da un lato e chi d’altro tramaccia;
     Onde a que’ dui baron fu necessario
     Spartir la zuffa, e sì grande la traccia
     Gli urtava adosso e tanta la zinìa,
     Che alcun di lor non scia dove si sia.

         Partito l’un da l’altro e a forza ispento,
     Chè una gran frotta a lor percosse in meggio,4
     Rimase ciascun de essi mal contento,
     Che non si discernia chi avesse el peggio;
     Ma pur Ranaldo è quel dal gran lamento,
     Dicendo: O Dio del cel, ch’è quel ch’io veggio?
     La nostra gente fugge in abandono,
     Ed io che posso far, che a piedi sono?

  1. Mr. e P. Sia suo.
  2. P. Oh re.
  3. P. tanta — P. omm. il.
  4. T. e Mr. mezo.