[St. 11-14] |
libro ii. canto xxviii |
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Però che nel scontrar di quei baroni
Sino alla resta se fiaccarno, in tanto
Che non eran tre palmi e’ lor tronconi,
Nè più che prima se donarno il vanto
De alcun vantaggio e’ forti campïoni,
E l’uno e l’altro è sangue tutto quanto;
E, come e’ lor destrier sian senza freno,
Ne andâr correndo un miglio, o poco meno.
Due lancie fece il re portare al prato,
Che avea il tempio de Amone, antiquo deo,1
E, sì come da vecchi era contato,
Di Ercole l’uno, e l’altra fo de Anteo.2
Bene era ciascun tronco smisurato:
Ognuna a sei bastasi portar feo;
Vedise adunque aperto in questo loco
Che la natura manca a poco a poco,
Se questi antiqui fôr tanto robusti,
Che avean forza per sei de quei moderni;
Ma non scio se gli autor fosser ben giusti,
E scrivesseno il vero a’ lor quaderni.
Or son portati al campo e’ duo gran fusti;
E guarda pur, se vôi: tu non discerni
Qual sia più forte, chè senza divaro
Di vena e di grossezza son al paro.
A Brandimarte fu dato la eletta:
Ciò volse il re Agramante per suo onore.
Ben vi so dir che ogniomo intorno aspetta
Veder che abbia più lena e più vigore.
Ma, mentre che ciascun di lor se assetta,
Di verso al fiume se ode un gran romore.3
Fugge la gente trista e sbigottita:
Tutti venian cridando: Aita! aita!4
- ↑ Ml. Chavia al tempo de Amon.
- ↑ Ml. e Mr. Hercule.
- ↑ Ml. e Mr. Che scrivessino.
- ↑ Ml. chabia; T. e Mr. che hab.