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[St. 43-46] libro ii. canto xxvi 443

         E già per tutto essendo chiaro il giorno,
     Agli altri schiavi lo fece legare,
     E a lor commesse che, suonando il corno,
     Sì come alla iustizia si suol fare,
     Poi che lo avean condotto alquanto intorno,
     Sopra alla forche il debbano impiccare;
     E tutti quei sergenti a mano a mano,
     Per far ciò che è comesso, se ne vano.

         Ma quel zeloso accolta avia tant’ira,
     Che desïava de vederlo impeso;
     Tanto l’orgoglio e ’l sdegno lo martira,
     Che nol vedendo mai non avria creso,
     E ratto a quei sergenti dietro tira;
     Ma prima in dosso un tabarone ha preso
     E un capellaccio de un feltron crinuto,
     Perchè dagli altri non sia cognosciuto.1

         Ora Teodoro, essendo già scappato
     E per questo cessata la paura,
     Del manto se amentò che avia lasciato,
     E cominciò di questo ad aver cura.
     Cercando de Gambone in ogni lato,
     Lo ritrovò con tal disaventura
     Che pegio non può star, se non è morto;
     Ma de Usbego ancor fu presto accorto,2

         Qual dietro gli veniva a passo lento,
     Nascoso e inviluppato al tabarone.
     Il giovanetto fu de ciò contento,
     E con gran furia va verso Gambone;
     Un pugno dètte al naso, e un altro al mento,3
     E mena gli altri, e diceva: Giottone!
     Ladro! ribaldo! Or va, chè a questo ponto,
     Come tu merti, alla forca sei gionto.

  1. T. Poi che.
  2. T. de lusbego; Ml. Ma poi dosbego.
  3. P. gli diè — T. e Ml. e un.