[St. 55-58] |
libro ii. canto xvii |
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Esso, mirando il suo gentile aspetto,
Che di beltate non avea pariglio,
Se consumava di extremo diletto,
Mancando a poco a poco, come il ziglio,
O come incisa rosa, il giovanetto,
Sin che il bel viso candido e vermiglio
E gli occhi neri e ’l bel guardo iocondo
Morte distrusse, che destrugge il mondo.
Quindi passava per disaventura
La fata Silvanella a suo diporto,
E dove adesso è quella sepoltura,
Iacea tra’ fiori il giovanetto morto.
Essa, mirando sua bella figura,
Prese piangendo molto disconforto,
Nè se sapea partire; e a poco a poco
Di lui s’accese in amoroso foco.
Benchè sia morto, pur di lui s’accese,
Avendo di pietate il cor conquiso,
E lì vicino a l’erba se distese,
Baciando a lui la bocca e il freddo viso,
Ma pur sua vanitate al fin comprese,
Amando un corpo dal spirto diviso,
E la meschina non sa che si fare:
Amar non vôle, e pur conviene amare.
Poi che la notte e tutto l’altro giorno
Ebbe la fata consumato in pianto,
Un bel sepolcro di marmoro adorno
In mezo il prato fece per incanto;
Nè mai poi se partitte ivi de intorno,
Piangendo e lamentando, infino a tanto
Che a lato alla fontana in tempo breve
Tutta se sfece, come al sol la neve.