[St. 51-54] |
libro ii. canto xv |
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E, poco stando, se levarno a volo,
L’un dopo l’altro verso il cel saliva.
Ranaldo a l’erba si rimase solo;
Amaramente quel baron piangiva,
Perchè sentia nel cor sì grande il dolo,1
Che a poco a poco l’anima gli usciva,
E tanta angoscia nella fine il prese,
Che come morto al prato se distese.
Mentre che tra quei fior così iacea,
E de morire al tutto quivi estima,
Gionse una dama in forma de una dea,
Sì bella che contar nol posso in rima,
E disse: Io son nomata Pasitea,
De le tre l’una che te offese in prima:
Compagna dello Amore e sua servente,
Come vedesti e provi di presente.
E fu quel giovanetto il dio d’Amore,
Qual te gettò de arcion come nemico;
Se contrastar ti credi, hai preso errore,2
Chè nel tempo moderno o ne l’antico
Non si trova contrasto a quel segnore.3
Ora attendi al consiglio che io te dico:
Se vôi fuggir la dolorosa morte;
Nè sperar vita o pace in altra sorte.
Amore ha questa legge e tal statuto,
Che ciascun che non ama, essendo amato,
Ama po’ lui, nè gli è l’amor creduto,
Acciò che ’l provi il mal ch’egli ha donato.4
Nè questo oltraggio che te è intravenuto,
Nè tutto il mal che puote esser pensato,
Se può pesar con questo alla bilancia,
Chè quel cordoglio ogni martìre avancia.
- ↑ Mr. e P. omm. il.
- ↑ P. Se voi contender seco.
- ↑ Ml. trovo.
- ↑ T. e Ml. 'l; T. e Mr. che gli.