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orlando innamorato |
[St. 39-42] |
Nè so stimar chi sia quello Africano,
Che occiso ha nostre gente tutte quante,
Se forse non è il figlio di Troiano,
Re di Biserta, che ha nome Agramante.
Sia chi esser vôle, io vado a mano a mano
Ad affrontarme con quello arrogante;
Voi, Otachiero, e tu, Dudon mio caro,
Prendèti a nostra gente alcun riparo;
Chè io callo al campo come disperato,
E son senza intelletto e coscïenza.
O tu, mio Dio, che stai nel cel beato,
Donami grazia nella tua presenza;
Chè io te confesso che molto ho fallato,
Et or ritorno a vera penitenza.
La fede che io ti porto, ormai mi vaglia,
Ch’io son senza il tuo aiuto una vil paglia.
Così parlava quel baron gagliardo,
Piangendo tutta volta amaramente;
Giù della costa sprona il suo Baiardo,
E batte per furor dente con dente.[1]
Tornarno e’ due compagni senza tardo,
Per condur sopra al poggio l’altra gente;
Ma il pro’ Ranaldo menando tempesta
Gionse nel campo e pose l’asta a resta.
Ver Rodamonte abassa la sua lanza,
E ben l’avea nel campo cognosciuto,
Chè tutto il petto sopra agli altri avanza,
Ne la sua faccia orribile et arguto,[2]
E gli occhi avea di drago alla sembianza.[3]
Or vien Ranaldo, e colse a mezo il scuto[4]
Con quella lancia sì nerbuta e grossa
Che avria gettato un muro alla percossa.
- ↑ T. e Ml. batte per.
- ↑ P. avanza Questo Africano orribile.
- ↑ P. Gli occhi aveva.
- ↑ T., Mr. e P. corse.