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[St. 27-30] libro ii. canto xiv 237

27 Lasciata avea la briglia, e ad ambe mano
     Feritte il saracin di tutta possa,
     Ma ciascun colpo adosso a quello è vano;
     Quella pelle del drago è tanto grossa,
     Che da possanza o da valore umano
     Non teme taglio, o ponta, nè percossa.
     Mentre ch’a lo Africano il colpo tira,
     Lui prende il suo destriero e intorno il gira.

28 E poi che l’ebbe alquanto regirato,
     Con furia via lo trasse di traverso,
     E quello andò per caso in un fossato,
     E sopra Rigonzon cadde riverso.
     Lasciamo lui, che vivo è sotterrato,
     E ritorniamo al saracin diverso,
     Che abatte sopra al campo ogni persona.
     Ecco afrontato ha il conte di Cremona,

29 Dico Arcimbaldo, il fio de Desiderio,
     Che vien col brando in mano alla distesa,
     Giovane ardito e degno de uno imperio,
     Ed atto a trare a fine ogni alta impresa;
     Nè già gli attribuisco a vituperio
     Se fu perdente di questa contesa,
     Perchè quel saracino ha tal possanza,
     Che tutti gli altri di prodezza avanza.

30 Egli abatte Arcimbaldo de l’arcione,
     Ferito crudelmente nella testa.
     Or se incomincia la destruzïone
     Di nostra gente e l’ultima tempesta;
     E destrier morti insieme e le persone
     Cadeno al campo, e quel pagan non resta
     Menare il brando da la cima al basso:
     Battaglia non fu mai di tal fracasso.