[St. 31-34] |
libro i. canto xxix |
501 |
Nel regno nostro è legge manifesta
Che chiunque porta scudo o ver cimero
D’un altro campïone o d’altra gesta,
È disfamato con gran vitupero,
E se non ha perdon, perde la testa.
Benchè ’l statuto sia crudele e fero,
Chè la pena è maggior che la fallanza,
Pur è servato per antiqua usanza.1
Avanti al re fu tratta la querella;
Il qual, veggendo tutta la cagione
Essere uscita da questa donzella,
Qual li avea indotto a quella guarnisone,
E con le insegne altrui montare in sella,
Prese consiglio, con molta ragione,
Che, avendo ogniom di noi fatto gran male,
Tutti dian voce a pena capitale:2
Oringo, perchè morto avea Corbino,
Ch’era garzone, e lui già di gran fama;
Et Arïante, sì come assassino,
Qual per avere il prezo d’una dama,
Avea promesso a quel vecchio mastino
La morte di colui che tanto brama.
Così meco Locrino ad una guisa,
Chè avevamo portata altrui divisa.
Sì iudicati tutti quattro a morte,
Fummo obligati sotto a sacramento
Non uscir for de Batria delle porte,
Sin che non è il iudicio a compimento;
E fece il re da poi ponere a sorte
Chi menar debba la dama al tormento,
Perchè lei, che è cagion di tanto errore,
Non aggia morte, ma pena maggiore.3
- ↑ T. Mr. servata.
- ↑ Ml. idan; T., Mr. e P. dan.
- ↑ T. Non haggia.