[St. 23-26] |
libro i. canto xxviii |
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Ma come quel che avea forza soprana,
Ben prestamente uscì di quello affanno,
E, riguardando la sua Durindana,
Dicea: Questo è il mio brando, o ch’io m’inganno;
Questo è pur quel ch’io ebbi alla fontana,
Che ha fatto a’ Saracin già tanto danno.
Io me destino veder per expresso
S’io son mutato, o pur se ’l brando è desso.
Così diceva: et intorno guardando,1
Vidde un petron di marmore in quel loco;
Quasi per mezo lo partì col brando
Persino al fondo, e mancòvi ben poco.
Poi se volta a Ranaldo fulminando;
Torceva gli occhi, che parean di foco,
D’ira soffiando sì come un serpente;
Mena a due mani e batte dente a dente.
O Dio del celo, o Vergine regina,
Diffendete Ranaldo a questo tratto;
Chè ’l colpo è fiero è di tanta ruina,2
Che un monte de diamanti avria disfatto.
Taglia ogni cosa Durindana fina,
Nè seco ha l’armatura tregua o patto;
Ma Dio, che campar volse il fio d’Amone,
Fece che ’l brando colse di piatone.
Se gionto avesse la spada di taglio,
Tutto il fendeva insino in su l’arcione;
Sbergo, ni maglia non giovava uno aglio,
Et era occiso al tutto quel barone.
Ma fu di morte ancora a gran sbaraglio,
Chè il colpo gli donò tal stordigione,
Che da l’orecchie uscia il sangue e di bocca;
Con tanta furia sopra l’elmo il tocca.
- ↑ P. e int. riguardando.
- ↑ T. e Ml. e fiero e.