[St. 51-54] |
libro i. canto xxv |
443 |
Presto dette combiato ai duo germani,
E ne la zambra se chiuse soletto,
E giva intorno stringendo le mani,
Ardendo di gran sdegno e di dispetto;
E con lamenti e con sospiri insani
Senza spogliarse se giettò sul letto,
Ove con pianti e dolente parole
In cotal forma si lamenta e dole:
Ahi vita umana, trista e dolorosa,
Nella qual mai diletto alcun non dura!
Sì come a la giornata luminosa
Vien drieto incontinente notte oscura;
Così non fu giamai cosa gioiosa,
Che non fusse meschiata di sventura;1
Ma ogni diletto è breve e via trapassa:
La doglia sempre dura e mai non lassa.
E questo si può dir per me, tapino,
Qual con tanto piacere e tanto onore
Accolto fui da quel viso divino,
Ch’io non credetti aver più mai dolore;
Ma poi fu ciò per farme più meschino,
E che la pena mia fusse maggiore;
Chè perder l’acquistato è maggior doglia,
Che il non acquistar quel de che s’ha voglia.
Io son venuto nella fin del mondo
Per l’amor d’una dama conquistare,
Et ebbi iersira un giorno sì iocondo,2
Quanto m’avria saputo imaginare:
Non vol Fortuna ch’io gionga al secondo,
Perchè Ranaldo me viene a sturbare.
E ben cognosce Iddio, ch’egli ha gran torto:
Ma certo l’un de noi rimarrà morto.
- ↑ Ml. a disventura.
- ↑ Ml. e T. hier sira; P. iersera.