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[St. 55-58] | libro i. canto xxiv | 429 |
Veggendo il conte la cosa sì strana,
Disse fra sè: Questa semenza ria
Mieter mi converrà con Durindana,
Ma, s’io n’ho mal, la colpa è tutta mia,
Perchè diletto ha pur la gente umana
Lamentarsi d’altrui per sua follia:
Ma colui pianger debbe a doppie doglie
Che per mal seminar, peggio raccoglie.
Così dicendo il conte non fu tardo,
Perchè a guarnirsi tempo non gli avanza;
L’elmo se alaccia il cavallier gagliardo,
E non aveva più scudo nè lanza.
Di piana terra salta su Baiardo
E quel percote con molta arroganza
Contra alla gente che gli ariva intorno,
Che, pur mo nata, die’ morir quel giorno.1
Or che bisogna ch’io vada contando
E’ colpi ad un ad uno e il lor ferire,
Dapoi che contra a Durindana il brando2
Non val coperta, nè arme, nè scrimire?
Però concludo in fin che il conte Orlando
Tutti li fece in quel giorno morire;
Come nel campo fur morti e dispersi,
L’arme e i cavalli e i corpi fôr somersi.
Da poi che il conte per tutto ivi intorno
Vide la gente morta e dissipata,
Che in vita fatto avea poco soggiorno,
E dove nacque, se era sotterrata,
Lui non indugia e pone a bocca il corno,
Per donar fine alla terza suonata,
E darsi a tal ventura ultimo vanto,
Come io vi contarò ne l’altro canto.