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[St. 55-58] | libro i. canto xiii | 251 |
Sì che nol puote a quel colpo ferire.
Or lancia l’altro con molta tempesta;
L’elmo scampò Ranaldo dal morire,
Chè proprio il gionse a mezo della testa;
L’altro ancor getta, e nol puote colpire.
Ma già per questo la pugna non resta,
Perchè il centauro ha preso il suo bastone,
E va saltando intorno al campïone.
Tanto era destro, veloce e leggiero,
Che Ranaldo se vede a mal partito;
Lo esser gagliardo ben li fa mestiero.
Quello animal il tien tanto assalito,
Che apressar non se puote al suo destriero;
Girato ha tanto, che quasi è stordito.
A un grosso pin se accosta, che non tarda:
Questo col tronco a lui le spalle guarda.
Quello omo contrafatto e tanto strano1
Saltando va de intorno tuttavia;2
Ma il principe, che avia Fusberta in mano,
Discosto a sua persona lo tenìa.
Vede il centauro afaticarsi in vano,
Per la diffesa che il baron facìa;
Guarda alla dama dal viso sereno,
Che di paura tutta venìa meno.
Subitamente Ranaldo abandona,
E leva dello arcion quella donzella;
Fredda nel viso e in tutta la persona
Alor divenne quella meschinella.
Ma questo canto più non ne ragiona;
Ne l’altro contarò la istoria bella
Di questa dama, e quel ch’io dissi avante,
Tornando ad Agricane e Sacripante.