[St. 59-62] |
libro i. canto xii |
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E poi che per mitade ebbe sorbito
Sicuramente il succo venenoso,
A Tisbina lo porse sbigotito.
Lui non è di sua morte pauroso1
Ma non ardisce a lei far quello invito;
Però, volgendo il viso lacrimoso,
Mirando a terra, la coppa gli porse,
E de morire alora stette in forse,
Non del toxico già, ma per dolore,
Che il venen terminato esser dovia.
Ora Tisbina con frigido core,
Con man tremante la coppa prendia,
E biastemando la Fortuna e Amore,
Che a fin tanto crudel li conducia,
Bevette il succo che ivi era rimaso,
Insino al fondo del lucente vaso.
Iroldo se coperse il capo e il volto,
E già con gli occhi non volìa vedere2
Che il suo caro desio li fosse tolto.
Or se comincia Tisbina a dolere,
Chè non è il suo cordoglio ancor dissolto;
Nulla la morte li facea, al parere
Il convenirgli da Prasildo gire:
Questa gran doglia avanza ogni martìre.
Nulla di manco, per servar sua fede,
A casa del barone essa ne è andata,
E di parlare a lui secreto chiede:
Era di giorno, e lei accompagnata.
Apena che Prasildo questo crede,
E fattosegli incontro in su la entrata,
Quanto più puote, la prese a onorare,
Nè di vergogna sa quel che si fare.
- ↑ P. Non essendo di morte.
- ↑ P. Perchè con.