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[St. 35-38] libro i. canto xii 223

         A te bisogna un specchio aver per scudo,
     Dove la dama veda sua beltade.
     Senza arme andrai, e de ogni membro nudo,
     Perchè convien entrar per Povertade.
     Di quella porta è lo aspetto più crudo
     Che altra cosa del mondo in veritade;
     Chè tutto il mal se trova da quel lato,
     E, quel che è peggio, ogni om vien caleffato.

         Ma a l’opposita porta, ove hai a uscire,
     Ritrovarai sedersi la Ricchezza,
     Odiata assai, ma non se gli osa a dire;[1]
     Lei ciò non cura, e ciascadun disprezza.
     Parte del ramo qui convienci offrire,
     Nè si passa altramente quella altezza,
     Perchè Avarizia apresso lei lì siede;[2]
     Benchè abbia molto, sempre più richiede.

         Prasildo ha inteso il fatto tutto aperto
     Di quel giardino, e ringraziò il palmiero.
     Indi se parte e, passato il deserto,
     In trenta giorni gionse al bel verziero;
     Ed essendo del fatto bene esperto,
     Intra per Povertate de leggiero.
     Mai ad alcun se chiude quella porta,
     Anci vi è sempre chi de entrar conforta.

         Sembrava quel giardino un paradiso
     Alli arboscelli, ai fiori, alla verdura.
     De un specchio avea il baron coperto il viso,
     Per non veder Medusa e sua figura;
     E prese nello andar sì fatto aviso,
     Che all’arbor d’oro agionse per ventura.
     La dama, che apoggiata al tronco stava,
     Alciando il capo nel specchio mirava.[3]

  1. P. omm. a.
  2. P. si siede.
  3. P. lo specchio.