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[St. 15-18] libro i. canto v 93

        E non poteva la notte dormire,
     Tanto la strengie il pensiero amoroso;
     E se pur, vinta dal longo martire,
     Pigliava al far del giorno alcun riposo,
     Sempre, sognando, stava in quel desire.
     Ranaldo gli parea sempre crucioso
     Fuggir, sì come fece in quella fiata
     Che fu da lui nel bosco abandonata.

        Essa tenea la faccia in ver Ponente,
     E, sospirando e piangendo, talora
     Diceva: In quella parte, in quella gente
     Quel crudel tanto bello ora dimora.
     Ahi lassa! Lui di me cura nïente!
     E questo è sol la doglia che me accora:
     Colui, che di durezza un sasso pare,
     Contra a mia voglia a me il conviene amare.

        Io aggio fatto ormai l’ultima prova
     Di ciò che pôn gli incanti e le parole,
     E l’erbe strane ho còlto a luna nova,
     E le radice, quando è oscuro il sole;
     Nè trovo che dal petto me rimova
     Questa pena crudel, che al cor mi dole,
     Erba, nè incanto, o pietra precïosa:
     Nulla mi val; chè amor vince ogni cosa.

        Perchè non venne lui sopra a quel prato,
     Là dove io presi il suo saggio cugino?
     Che certamente io non avria cridato.
     Ora è pregione adesso quel meschino.
     Ma incontinente serà liberato,
     Acciò che quello ingrato peregrino
     Cognosca in tutto la bontate mia,
     Che dà tal merto a sua discortesia."

1. P. Egli di me non cura n.