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grandemente commosso, con libertá maggiore di quello che gli si conveniva, gli disse che notoriamente essendo egli stupido di ingegno, inetto al governo degli Stati, il qual tutto aveva ab* bandonato in mano di un suo viziosissimo favorito, con qual fondamento di veritá potea pretendere che il Cavalcanti, nel lodare un balordo suo pari, sfacciatissimamente non avesse mentito? Con rabbia che non si può dir con le parole né scriver con la penna, si avventò allora quel prencipe contro l’Aretino; e cosi gli disse: — Tu ne dirai e farai tante e tante, lingua fracida, marcia, senza sale, ch’ai fin si troverá pur un pugnale miglior di quel d’Achille e piú calzante. Saggio son io, e tu sei un furfante, nutrito del pan d’altri e del dir male: un piede hai in chiasso, l’altro allo spedale, stroppiataccio, ignorante ed arrogante. Per queste tanto ingiuriose parole dette ad un giudice sedente prò tribunali, talmente di sdegno si accesero il fiscale, i notai e tutti gli ufficiali di quel tribunale, che si gettarono addosso a quel prencipe per condurlo prigione: ma egli, che piú era bravo di mano che valente d’ingegno, non solo difese se stesso, ma, aiutato dalla sua famiglia, all’infelice Aretino fece un occhio come un calamaro, spezzò un braccio a Giovenale, ruppe la ganassa destra al Berna; e il povero Ludovico Ariosti, che, come vide attaccata quella terribil baruffa, si pose in fuga, cadette giú dalle scale e si fracassò tutta la persona. Apollo, come prima ebbe la nuova di cosi gran disordine, non tanto si accorò per la vergogna fatta a quel nuovo tribunale é per lo danno che vi aveano ricevuto quei suoi poeti, quanto perché toccò con mano, il morbo dell’adulazione essere infermitá incurabile, delitto senza castigo: poiché gli uomini si vedevano condotti a tanta cecitá, che l’ingiurie perniciosissime degli adulatori stimavano favori degni di rimunerazione; onde con grandissimo suo cordoglio annullò il tribunale, e confessò non esser possibile punir quel delitto, del quale non si trovava chi volesse querelarsi.