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questa corte — ma perché la faccenda molto va secreta, il menante, che non avvisa se non cose certe, non la dá per nuova molto sicura, — che nella congregazione abbino ricevuta la mortificazione di severe riprensioni molti istorici, tra i quali si nominano alcuni della prima classe. Perché si dice che al serenissimo Giulio Cesare fu comandato che, nel termine di venti giorni, nei suoi Commentari in ogni modo avesse aggiunta la frattura dell’erario romano puntalmente com’ella passò, e che in essi facesse menzione degli altri particolari, che, per essere piú che mediocremente stomacosi, per non darsi la zappa ne’ piedi erano stati taciuti da lui. Che Svetonio Tranquillo acerbamente fu ripreso, che negli scritti suoi piú di qualsivoglia altro letterato avendo egli fatta aperta professione di scrittor circospettissimo e politissimo, di Tiberio poi avesse raccontata quella oscenissima lascivia di servirsi nelle sfrenate sue libidini fino dei fanciulli che lattavano. Sporcizia, che in tutti i modi dovea esser taciuta: non solo perché gl’istorici non possono affermar per vere quelle sceleratezze che in materia di libidine si fanno al buio e a porte chiuse, ma perché anco quelle cose vere devono tacersi, che per la molta disonestá loro piú tosto devono esser sepolte che pubblicate; essendo il fine d’ogni istorico inserir negli animi altrui la virtú, non insegnar i vizi. Ben si dice che piú benignamente fu detto a Dione, che la scrittura istorica, che tutta deve essere sostanza di veritá, tutta sugo di documenti politici, non ha bisogno di essere empiuta della borra di quella spessa narrazione di portenti, dei quali si vedeva ch’egli tanto avea colmati gli scritti suoi, che stufavano quelli che li leggevano: cosa tanto piú tediosa, quanto in essi cosi nel numero come nella qualitá avea trapassati i termini tutti dell’onestá, poiché lo stesso Apollo si era riso che egli avesse scritte molte pioggie di sassi e di sangue: non ricordandosi Sua Maestá co’ suoi raggi di aver giammai tirati all’alta regione dell’aere vapori tali, che poi si fossero potuti congelar in sangue e convertir in pietre, per bruttar gli uomini o per ammazzarli con le sassate. Si dice che di questa riprensione fatta a Dione, anco il padre dell’istorie romane Tito Livio si arrossi non poco: forse