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RAGGUAGLI DI PARNASO I?I pericolano: oncTè che le misere pecore nelle mandre soverchiamente numerose, per mera trascuraggine di chi le regge, si veggono smagrire prima e morir poi di mera necessitá. Disordine che si cagiona, perché le mandre di sproporzionata grandezza, in vece di ottimi instituti, si veggono piene di bruttissime confusioni; ed è verissimo il proverbio, da noi pecorai cosi frequentemente detto come ben osservato, che le poche pecore non suppliscono ai bisogni della casa di un pastore, le molte bastano, le infinite, generando confusione, anzi sono di danno che di utile. Felicissimi i prencipi e le republiche, se dal grandissimo Dio avessero ricevuto la proprietá de’cameli, di fiaccarsi con l’umiltá in terra per esser caricati del peso del governo dei popoli: e sapessero por fine alla superbia e alla ambizione con levarsi in piedi e non voler che si aggiunga loro maggior peso, quando quello del quale sono stati caricati, proporzionato conoscono alle forze loro. Ma gli uomini per giusto giudicio divino nascono con l’infelice ingordigia di tutti i giorni della vita loro affannarsi in abbracciare un pagliaio grande di fieno, per aviditá di portarlo in una sol volta tutto a casa; il quale cadendo poi loro per istrada, dopo tante industrie e fatiche si avveggono alla fine di aver sudato indarno. Quindi è che, da mille seicento e piú anni in qua ch’io mi trovo pastore nell’Arcadia, sempre si sono contate nella mia mandra cinquecento pecore; le quali perché del continuo mi hanno dato il sicuro guadagno di cinquecento scudi l’anno, avventuratissimo sempre sono stato giudicato tra tutti i pastori della nostra Arcadia: ond’è che infelicissimo giudico quel pecoraio che, accecato dall’avarizia, con prò vedersi di tante mandre di pecore crede di poter arricchire in un sol giorno; le quali non potendo esser tutte guardate da quell’occhio del padrone che fa ingrassar le pecore e che è la somma felicitá della mandra, sempre le dá in guardia a garzoni trascuratissimi, e molte volte in affitto a quei crudelissimi pecorai, che, per aviditá di cavar sopra la forza delle pecore un debole frutto, non curano di mandare in ruina un gran capitale. Né tra noi altri pecorai sono mancati gli Alessandri