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RAGGUAGLIO XXXVII Un letterato romano chiede ad Apollo rimedio per scordarsi alcune gravi ingiurie ch’egli avea ricevute nella corte d’un prencipe grande; e da Sua Maestá gli è data a bere l’acqua di Lete, ma con infelice riuscita. 11 letterato romano che alcuni giorni sono comparve in Parnaso, ieri fu ammesso all’audienza reale della maestá di Apollo: al qual disse che per le molte ingiurie che da diversi suoi malevoli aveva ricevute nella corte di un prencipe, dove le persecuzioni si esercitano con artifici di sessanta carati, egli vivea con l’animo molto tribolato; e tanto maggiormente, che non poteva vendicarsene senza por se stesso in ruine molto maggiori di quelle che i suoi nemici gli avevano cagionate: e che dall’altro lato non si trovava aver tal virtú di animo, che sapesse far la generosa risoluzione di perdonare; e che per liberarsi dal tormentoso inferno nel quale egli perpetuamente viveva, era ricorso a Sua Maestá, la quale umilissimamente supplicava di qualche presentaneo rimedio per nettar l’animo suo dalle molte passioni di odio grandemente sporcato. Chiaramente si conobbe che la maestá di Apollo compatí la miseria di quel gentiluomo, e comandò che gli fusse data a bere una gran tazza di Lete, preparata però talmente, che facesse scordar le cose odiose e punto non togliesse la memoria de’ benefici ricevuti. Con somma aviditá bebbe il gentiluomo l’acqua; la quale, con meraviglia grandissima d’ognuno, fu ritrovata aver solo la virtú di scancellar dall’animo di lui la memoria di quelle ingiurie ch’egli da uomini a lui inferiori di fortuna aveva ricevute, e che quelle che gli erano state fatte da soggetti maggiori, piú tosto con piú eterna memoria aveva esacerbate, che fatte dimenticare. Onde molti cominciarono a mormorare che nell’acqua di Lete non si trovasse quella virtú che da’ poeti tanto era stata predicata: quando Sua Maestá accertò ognuno che l’acqua di Lete aveva, come mai sempre avrebbe, la medesima sua virtú; ma che in quel