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fioca accompagnata da spessi sospiri, con un collo torto, con dieci parole spirituali facevano tramortir le persone, si tiravano dietro le turbe, che gli ammiravano e onoravano come semidei ; eppur non era giá il mestier nostro a quei tempi in quella eccellenza di simulazioni, che si vede al presente; con tutto ciò, con la perfezione dell’arte siamo aborriti e mostrati talmente a dito, che dalla somma venerazione abbiamo fatto passaggio all’obbrobrio delle genti. Signori, voi siete stati chiamati in questo luogo acciò, ragionandovi io delle ragioni onde naschin li nostri vilipendi, che si trovino gli errori e si corregghino e, se fia possibile, l’ipocrisia, caduta nel vilissimo stato che vedete, si ritorni nel santissimo credito oi prima.

Tre al parer mio sono li disordini che ci hanno ritolta tutta la riputazione: il primo e grandissimo è che, dove prima l’arte nostra era solo seguita da subietti bassi per sollevarsi dalle miserie, da alcuni anni in qua molti re e prencipi grandi hanno voluto esercitarla; nella quale essendo essi novizi poco catechizzati e senza gli veri principi, l’hanno affatto vituperata, perché, dove i passati prencipi con l’arme apertamente si forzavano occupar li Stati altrui, mentre alcuni moderni hanno voluto servirsi dell’ipocrisia invece degli eserciti, sono stati scoperti i loro fini e hanno spogliato affatto di riputazione la profession nostra, la quale, come sanno le signorie vostre, deve star lontana dalle violenze e dalla forza, fondandosi tutta la sua potenza nel mostrarsi umile e rimessa. Questa che ne hanno data gli prencipi è stata per certo ferita tanto mortale, che non solo all’ipocrisia ha tolto tutto il credito, ma fino l’ha scemato alla vera bontá, tanto gli uomini, ingannati per lo passato di falsi pretesti, si sono insuspettiti.

Il secondo e gravissimo disordine è cagionato da alcuni di noi, li quali, per mezzo di quest’arte essendo arrivati a posseder ricchezze immense, hanno fatto il grandissimo errore di ritenere l’ipocrisia ancora in quel stato; e pur abbiamo per regola che il mestier nostro è atto ad acquistare le facoltá, inetto a mantenerle, come quello che non ha maggior inimica