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E dal censore e da tutto il sacro collegio con applauso mirabile fu approvata l’esculpazione del Granducato di Toscana, onde il conte alla serenissima Libertá di Genova, che ultima fu estratta dall’urna, disse che l’uso soverchio dei cambi, ch’ella permetteva alla sua nobiltá, cagionava il grandissimo disordine d’arricchir il privato e d’impoverir il pubblico, i proventi del quale avrebbono reso somma grande d’oro, quando le reali ricchezze dei suoi nobili fossero state impiegate nel traffico della mercatanzia; e che con la proibizione delli cambi li suoi nobili avrebbono anco lasciata quella mala pratica degli Spagnuoli, che tanto le scemava la riputazione. Con prontezza, che diede un particolar gusto a tutti i letterati, rispose la Libertá genovese esser vero che i cambi facevano l’effetto che aveva ricordato il censore, e che però erano perniciosissimi in qualsivoglia monarchia, ma che senza danno degli interessi pubblici si potevano permettere in una ben ordinata republica, percioché

  • i piú ricchi e piú sicuri tesori d’uno Stato libero erano le

ricchezze della nobiltá e di tutta la cittadinanza, cosa che non accadeva nelle monarchie, dove tra l’aver del prencipe e le facoltá dei privati era tra mezzo un muro lungo di otto teste fabbricato del mio e tuo, mercé che nelle monarchie la mutazion dello Stato per l’ordinario segue con poco interesse dei popoli, solo cangiandosi il nome di Matteo in quello di Martino, ma che nelle sovversioni delle republiche, dove la libertá si cambiava nella servitú, il tesoro pubblico era le sostanze dei privati, i quali profusamente spendevano tutto l’aver loro per difendere fino all’ultimo spirito la patria libera. Che poi, quanto alla mala pratica, che la sua nobiltá teneva delli Spagnuoli, gli disse che pregava ognuno a considerar bene se la pratica de’ suoi Genovesi era dannosa alli Spagnuoli, o la domestichezza delli Spagnuoli ai Genovesi, ché ritroverebbono certo, che la padella poca paura aveva d’esser tinta dal caldaro.