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RAGGUAGLIO LXXVII

Molti prencipi, credendo che ’l disordine delle loro corti abbandonate dai cortigiani proceda dalle maladicenze da Cesare Caporali poeta perugino dette nel suo capitolo della Corte , appresso Apollo fanno instanza ch’egli sia proibito; e l’ottengono.

Mercore mattina appresso la Maestá d’Apollo alcuni prencipi acerbissimamente si dolsero che le corti loro, le quali in stima cosi grande erano prima appresso le genti, che ognuno fermamente credeva solo in esse trovarsi ogni consolazione per passar la vita allegramente, ogni sorte di dottrina per arricchir l’animo di nobilissime virtudi, ogni felicitá per ben accommodarsi di ricchezze e di onorate dignitadi, ora talmente venivano aborrite, che, meri rompicolli e pubblici spedali degli uomini sfortunati essendo riputate da ognuno, eglino piti che molto penavano in ritrovar uomini per lo servigio loro; e che que’ pochi che alle corti andavano, soggetti erano pieni di inezia, dalle case loro cacciati dalla disperazione, dalla fame e da ogni piú misera povertá: onde accadeva che, se questi, come prima nelle corti giungevano, incontanente non erano arricchiti, e se subito i gradi onorati e le dignitadi anco piú supreme, che nel vastissimo animo loro si erano prima proposte, non ottenevano, cosi precipitosamente ad una brutta impacienza si davano in preda, che, come bizzarri poliedri e cavalli molto teneri di bocca, per ogni leggier spronata o picciola sbrigliata che nelle corti ricevevano, dopo prima insolenti calci aver tirati al padrone, scortesemente poi abbandonavano l’impresa di piú servirlo. E che dove per lo passato i soggetti piú nobili, gli uomini piú facoltosi, con la sola nuda stanza, con la solita parte di pane e di vino e un giulio di companatico il giorno, a sommo favore si recavano di esser ricevuti in corte, ora non solo della scarsezza dell’uno e dell’altro pubblicamente si lamentavano, ma fino i soggetti piú inetti non dubitavano di pretendere e di chieder grossi