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ma piú amica la veritá; interruppe allora Tacito il ragionamento del Lipsio, e li disse che lasciasse quei preamboli che in quel luogo tanto avevano del rancido, e speditamente desse la sua accusa, perché gli uomini politici suoi pari, da quelli da’ quali aspettavano i brutti fatti non potevano con pazienza udire i premeditati preludi delle belle parole. Allora cosi rispose il Lipsio: — Voi nel primo libro delle vostre Istorie liberamente avete detto che Iddio non tiene altramente cura della salute del genere umano, ma solo del castigo ; concetto tanto maggiormente empio, quanto di un prencipe terreno, non che di Dio, proprissima virtú del quale è la misericordia e la sviscerata paterna caritá verso la salute di tutti gli uomini, delitto degno di grandissima punizione sarebbe dir cosa tanto esorbitantemente iniqua. Le formali vostre parole sono queste : « Nec enim unquam atrocioribus populi romani cladibus, magisve iustis iudiciis approbatum est , non esse curae deis securitatem nostrani , esse ultionem » ( 1 )• È ben vero che in questo vostro grandissimo mancamento questo solo può scusarvi, che nel precipizio di cosi grave errore siete caduto guidato dal mal accorto Lucano, il quale, prima di voi pubblicando la sentenza medesima, lasciò scritti questi versi:

m

Foelix Roma qnidem , civesque kabitura superbos:

si libertatis superis tam cura placcret,

quarn vindicta placet. —

Udite che ebbe Tacito queste cose: — Mi duole, — disse, — Lipsio mio, che avendo tu fatta pubblica ostentazione di esser l’unico oracolo de’ miei piú reconditi sensi, in cosa poi alla mia riputazione di somma importanza abbi pigliato cosi grosso errore. Percioché le parole mie, che pur ora hai recitate, in tanto, come tu le accusi, non sono empie, che io le sostento piissime e santissime. E per farti capace della veritá che io dico, mi piace col giro di molte parole interpretarti quel mio concetto, che, secondo il mio costume essendo stato detto con poche, tu non

(i) Tacito, libro I delle Istorie.