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nell’etá sua ottuagenaria si era posto ad imparare la lingua arabica. Accresceva la riputazione di cosi nobile personaggio la famosissima sua biblioteca, che egli aveva portata seco: per questo nobilissima, che aveva il padrone piú dotto de’ libri di lei, tutti cosi esattamente bene studiati, che erano consumati dagli occhi di quel letteratissimo signore. Mentre dunque il venerando collegio de’ virtuosi stava aspettando che la nominazione cadesse in uno dei due tanto famosi soggetti che si sono nominati, Apollo propose Vincenzo Pinti, per l’eccellenza con la quale suona quell’ istrumento, nella corte di Roma « detto il cavalier del liuto ». Talmente per la viltá del soggetto rimasero storditi i letterati, che con umilissima instanza fecero saper a Sua Maestá ch’essi di buonissima voglia avrebbono eseguito quanto egli comandava; ma che solo li ricordavano che il suo fidelissimo collegio de’ virtuosi con mal animo nel suo numero ammetteva un citaredo. A questa instanza rispose Apollo ch’egli aveva antiveduta la presente maraviglia del collegio: che nondimeno di buon animo decretassero l’ immortalitá al cavaliere, poiché sapea di comandar cosa necessaria, ancorché loro paresse strana. Per secreto scrutinio dunque fu vinto il partito, e favoritissimamente decretata l’eternitá al nome del cavalier del liuto; il quale incontanente dai maestri delle cerimonie pegasee fu introdotto nel collegio de’ virtuosi. Disse allora Apollo al cavaliere: — Voi, Vincenzo, siete il primo della vostra professione che sia stato ammesso in questo letterato collegio : dignitá solo riserbata a quelli che co’ perpetui sudori loro hanno fatto acquisto delle buone lettere; ma la necessitá che oggi si ha della persona vostra, ci ha violentati a far questa risoluzione. Insegnate dunque ai prencipi e a’ privati l’arte necessarissima d’accordar i liuti, nella quale molti sono tanto ignoranti, che per troppo tirar le corde le strappano; e sopra tutti caramente vi sieno raccomandati certi cervellacci bizzarri, che so che sicuramente vi capitaranno nelle mani, i quali, essendosi ostinati in voler che i bordoni facciano l’ufficio dei canti, tanto gli stirano, che tuttoché sieno corde molto grosse, le rompono nondimeno, e mandano in fracasso i liuti. —