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altro. Vidi e lodo il tuo carme su’ Fiorentini, che dice la verità, e volesse Dio che a’ tuoi e miei concittadini fosse noto sì come è a me; forse la cosa non andrebbe a vuoto, ma non so s’io debba dire che siamo condotti o strascinati dai fati, o piuttosto, che volontarii andiamo ad incontrare lo sterminio. Divorante livore, crudele bramosia d’avere lasciano al nostro senato, ed agli altri nulla di buono, di giusto, di fede, di consiglio. Delizie asiatiche un tempo ai Greci, le asiatiche, e poi le greche a’ Romani furono d’esterminio: le nostre mandano in malora noi, e dalla cima di floridissimo stato ci riducono, e più ci ridurranno sul letamaio. Oh vituperio! oh poltronaggine! oh l’alterigia ridicola di taluni che con certa insulsa finzione pretendono di spacciare per nati sotto la stella del fiero Marte uomini effeminati, ed ai piaceri d’incestuosissima venere a tutta possa inchinati. Così voglia Dio metter pace a’ miei travagli, che per l’avvenire, avendo forse da viaggiare tuttavia, siami più caro di Giovanni da Certaldo, che da Firenze avere il cognome. Prego la pietà de’ Celesti ne rimiri, e lume infonda agli erranti. Aspetti sapere dopo tante cose, che io mi faccia stando in una città così ancipite? ascolta: al mio solito tra pubbliche e private faccende occupatissimo, son’oltre il voler mio affaticato; imperciocchè poco dopo la tua partenza, come avea fatto spesso anche innanzi, m’era con assai buoni patti, a parer mio, accomodato con povertà per mediazione di Seneca. Ma di recente un tenue sibilo di miglior fortuna ruppe in un tratto l’accordo, e ridussemi ne’ già rotti lega-