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308 LA TESEIDE


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Sotto il qual cadde il già contento Arcita,
     E il forte arcione gli premette il petto,
     E sì il ruppe, che una ferita
     Tutto pareva il corpo al giovinetto,
     Che fu in forse allora della vita
     Abbandonar dal gran dolor costretto:
     E per molti, che a lui corsono allora,
     Atato fu senza alcuna dimora:

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I quali appena lui disvilupparo
     Da’ fieri arcioni, e con fatica assai
     Da dosso il caval lasso gli levaro:
     Il qual com si sentì libero omai,
     Non parve faticato, tal n’andaro
     Le gambe sue fuggendo, tanti guai
     Gli minacciò la Furia colla vista
     Sua dispettosa, nocevole e trista.

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Emilïa del loco, dove stava,
     Chiaro conobbe il caso doloroso;
     Perchè il core, che più ch’altro l’amava,
     Di lui dubbiando, si fe’ pauroso:
     Perchè per tema a sè tutte chiamava
     Le forze sparte nel corpo doglioso:
     Perchè nel viso tal rimase ismorta,
     Qual è colui che al rogo si porta.