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prima da chiederla che i loro animi si conoscano: e però taciti dimoriamo come infino a qui dimorati siamo, infino a tanto o che mi parlino d’alcuna cosa, per la quale io possa a ragionare de’ tuoi fatti debitamente venire, o che io, eleggendo debito tempo, ne parli a loro, o che alcun’altra via ci si prenda migliore, per la quale il loro intendimento possiamo conoscere; il quale conosciuto, quello che operare deggiamo conosceremo -. A questo s’accordò Filocolo, e lasciarono il lungo consiglio.

Dimorando adunque costoro, per conoscere di loro operare il migliore, Filocolo solo con Menedon dall’ostiere si partirono un giorno, e soletti andavano le bellezze di Roma mirando, le quali saziare non si poteano di guardare, lodando la magnanimità di coloro che fatte l’aveano fare e de’ facitori il maestro. E così andando pervennero al bellissimo tempio, che del bel nome di colui s’adorna che prima nel diserto comandò penitenza a’ peccatori, annunziando il celeste regno essere propinquo, e dalla rana cognominato del rabbioso Nerone; e in quello entrarono, e rimirando di quello le grandezze in una parte videro effigiata di colui la figura che fu dell’universo salute. Questa si pose Filocolo con ammirazione grandissima a riguardare: e qual fosse la cagione delle forate mani, de’ piedi e del costato pensare non sapea, per che sopra questo imaginando dimorava sospeso. Nella quale dimoranza stando, uno uomo antico non troppo e di bella apparenza, in iscienza peritissimo, il cui nome, secondo ch’egli poscia manifestò, era Ilario, disceso di parenti nobilissimi, d’Attene quivi con Bellisano, patrizio di Roma, e figliuolo