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tacere mi fu di tanto male, quant’io sento e ho poi sentito, cagione, ella, invita, comandandogliele la reina, mel concedette: dunque per amore puoi vedere ch’io mi dolgo. Oimè, che se l’ira d’uno potesse trarre amore del cuore ad un altro, io direi che licito gli fosse stato l’adirarsi; ma quella in me misero il multiplicò, né l’ha però mancato il lungo essilio. Or quali cose sono con maggiore appetito disiderate che quelle che sono molto vietate? Veramente ti giuro che mai il mio pensiero non si distese tanto avanti ch’io sconcia cosa di Biancifiore disiassi, né disidererei già mai, sentendo com’io sento che ella sia da lui sopra tutte le cose amata. Né mi pare ingiusta cosa a dire ch’egli più si debba contentare che io la ami che se io la odiassi. E se quello c’ho detto non si concede, e dicasi pure ch’io gravemente abbia fallito, consentasi, e sia a chi si pente largito perdono. Giove perdona e ciascuno altro iddio a’ suoi offenditori, quando, riconosciuto il fallo, pentendosi domandano perdono. Veramente mi saria grazia, s’io fallii, che ’l mio signore mi perdoni, ché s’io non fallii, avendomi in ira, mancherebbe di suo dovere. Tanto è la grazia grande quanto il perdono. Niuna ragione vuole che grado si senta del non ricevuto servigio. Se io fossi in Marmorina e servissilo e avessi la sua grazia intera, di ciò al mio servigio sentirei dovere rendere grazie. Oimè, che a’ signori dovria essere spesso caro il fallire de’ suggetti per poter perdonare, acciò che perdonando la loro grande benivolenza mostrassero. Sanno però gl’iddii, conoscitori degli occulti cuori, che io tal guiderdone del mio amore non meritai, ma forse altro peccato a sì fatta pena, sotto questo titolo