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niuna cosa amava, secondo quelle, se non me, di che io vissi per alcuno spazio di tempo contento. Ma la non stante fede de’ feminili cuori, parandosi agli occhi di costei nuovo piacere, dimenticò com’io già le piacqui, e prese l’altro, e fuggita del mio misero grembo, nell’altrui si richiuse. Quanto sia il dolore di perdere subitamente una molto amata cosa, e massimamente quando col propio occhio in altra parte trasmutata si vede, il dirlo a voi sarebbe un perder parole, però che so che ’l sapete; ma non per tanto, con quello, ad ogni animo intollerabile, la speranza di racquistarla mi rimase, né per ciò risparmiai lagrime, né prieghi, né affanni. Ma la concreata nequizia a niuna delle dette cose prestò audienzia, né concedé occhio, per che io con affanno in tribulazione disperato rimasi, morte per mia consolazione cercando, la quale avere mai non potei, non essendo ancora il termine del dover finire venuto. Il quale io volendo, come Dido fece o Biblide, in me recare, e già levato in piè di questo prato, ov’io piangendo sedeva, mi sentii non potermi avanti mutare, anzi soprastare a me Venere, di me pietosa, vidi, e disiderante di dare alle mie pene sosta. I piedi, già stati presti, in radici, e ’l corpo in pedale, e le braccia in rami, e i capelli in frondi di questo albero trasmutò, con dura corteccia cignendomi tutto quanto. Né variò la condizione d’esso dalla mia natura, se ben si riguarda: egli verso le stelle più che altro vicino albero la sua cima distende, così come io già tutto all’alte cose inteso mi di stendea. Egli i suoi frutti di fuori fa durissimi, e dentro piacevoli e dolci a gustare. Oimè, che in questo la mia lunga durezza al contrastare agli amorosi