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sua nuova sampogna con gran diletto di se medesimo sonava, e niente di meno alla dolcezza di quello le pecore faceano mirabili giuochi. Questo suono udito dalle vaghe giovani, sanza niuna dimoranza corsero quivi, e poi che per alquanto spazio ebbero ricevuto diletto, e del suono e della veduta delle semplici pecore, una di loro chiamata Gannai, fra l’altre speziosissima, chiamò Eucomos, pregandolo che a loro col suo suono facesse festa, di ciò merito promettendogli. Fecelo. Piacque loro. Tornano più volte ad udirlo. Eucomos assottiglia il suo ingegno a più nobili suoni, e sforzasi di piacere: Gannai, più vaga del suono che alcuna dell’altre, lo ’ncalcia a sonare. Corre agli occhi di Eucomos la bellezza di lei con grazioso piacere: a questo s’aggiungono dolci pensieri. Egli in se medesimo loda molto la bellezza di colei, e estima beato colui cui gl’iddii faranno degno di possederla, e disidererebbe, se possibile gli paresse, d’essere egli. Con questi pensieri, Cupido, sollicitatore delle vagabunde menti, disceso di Parnaso, gli sopravenne, e per le rustiche medolle tacitamente mescolò i suoi veleni, aggiungendo al desiderio subita speranza. Eucomos si sforza di piacere, e per lo nuovo amore la sua arte gli spiace, ma pur discerne non convenevole a lasciarla, sanza saper come. I suoi suoni pieni di più dolcezza ciascun giorno diventano, sì come aumentati da sottigliezza di miglior maestro: l’ardenti fiamme d’amore lo stimolano; per che egli, nuova malizia pensata, propone di metterla in effetto, come Gannai verrà più ad ascoltarlo. Non passò il terzo giorno, che la fortuna, acconciatrice de’ mondani accidenti, conscia del futuro,