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libro terzo 317

certo ciò non è maraviglia, con ciò sia cosa che i figliuoli debbano succedere a’ parenti nelli loro atti: chi più infortunato fu che il mio padre e la mia misera madre, avvegna che di tutto io fossi cagione se io di ciò fui cagione, dunque maggiormente conviene che io infortunata sia, anzi posso dire che io sia esso infortunio. Rallegrinsi le loro anime ove che esse sieno: io porto pena del commesso male. O iddii, provedete alla mia miseria, poneteci fine. O Nettunno, inghiottisci la presente nave, acciò che la misera perisca. Racchiudi sotto le tue onde in un corpo tutte le miserie, acciò che il mondo riposi: elle sono tutte adunate in me; se tu me nelle tue acque raccogli, tutte l’avrai in tua balia, e potrai poi di quelle dare a chi ti piacerà. E tu, o Eolo, leva co’ tuoi venti le tese vele, che al mio disio mi fanno lontana. Ove è ora la rabbia de’ tuoi suggetti, che a’ troiani levò gli alberi e’ timoni, e parte de’ loro uomini e delle navi? Risurga, acciò che io più non sia portata avanti. Io disidero di morire ne’ vicini mari al mio Florio, acciò che il misero corpo, portato dalle salate acque sopra i nostri liti, muova a pietà colui di cui egli è, e da capo con le propie lagrime il bagni. O almeno abassa la potenza del fresco vento che ci pinge alla disiderata parte da costoro. Apri la via agli orientali e agli austri, acciò che negli abandonati porti un’altra volta sieno gittate le tegnenti ancore, e quivi forse da Florio, che già dee la mia partita aver sentita, sarò radomandata con maggior quantità di tesori a costoro. Niuna altra speranza m’è rimasa, in niuna altra maniera mai rivedere non credo colui che è solo mio bene. Oimè, i miei prieghi non sono uditi; e chi