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la graziosa fama del mio valore? Sì ho. Quanti uomini, ignoranti qual sia la cagione del mio essilio, penseranno me dovere avere commesso alcuna cosa iniqua, e, per paura di non ricevere merito di ciò, mi sia partito? I nimici creano le sconce novelle dove elle non sono, e le male lingue non le sanno tacere. La iniquità da se medesima si spande più che la gramigna per li grassi prati. Non sono io per lo mio tristo essilio divenuto povero pellegrino? Non ho io perduta gioia e festa? Non è per quello la mia cavalleria perduta? Certo sì. Oimè, quante altre cose sinistre con queste insieme mi sono avvenute per lo mio sbandeggiamento! Ma certo, per tutto questo, alcuna cosa del vero amore che io porto a Biancifiore, non è mancato. Più che mai l’amo: niuna pena, niuno affanno, nè alcuno accidente me la potrà mai trarre del cuore. E certo se egli mi fosse conceduto di poterla solamente vedere, come io vidi già, tutte queste cose mi parrebbero leggieri a sostenere. Il non poterla vedere m’è sola gravezza, questo mi fa sopra ogni altra cosa tormentare. Ella co’ suoi begli occhi, avvegna che falsi siano, mi potrebbe rendere la perduta consolazione. Io vo fuggendo per lei. Se l’amore di lei avessi, non che il fuggire ma il morire mi sarebbe soave! Ma poi che l’amore non puoi di lei avere, e il poterla vedere t’è tolto, piangi, misero Fileno, e dà pena agli occhi tuoi, i quali stoltamente nella forza di tanto amore, quanto tu senti, ti legarono. Oimè misero, io non so da che parte io mi cominci più a dolere, tante e tali cose m’offendono! Ma tra l’altre, tu, o crudelissimo signore non figliuolo di Citerea, ma più tosto nimico, mi dai infinite cagioni di dolermi di te e di biasimarti.