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libro terzo 167

fendere perché io t’amo, e io sono costretto di stare lontano da te acciò che io ti dimentichi; ma certo questo è impossibile, ché amore non ci legò con legame da potersi sciogliere. Niuna cosa, altro che morte, non ci potrá partire, però che né noi il consentiamo, né amore vuole: anzi con piú forza continuamente mi cresce nello sventurato petto, tanto che d’ogni cosa mi fa dubitare; ed è cresciuto a tanta quantitá, che quasi dubito che tu non m’ami, o che tu per altri non mi abbandoni. O forse ancora per li conforti della mia madre, e per campare la vita, la quale con le proprie braccia campai, lasci di amarmi. Oimè, che amaro dolore mi sarebbe questo! O graziosa giovane, non dimenticar colui che mai te non dimenticherá: gl’iddii concedano che com’io ti porto nell’animo, tu porti me». In simili ragionamenti e pensieri e pianti consumò lo innamorato giovane quel giorno e la maggior parte della notte, né potea nel suo petto entrar sonno, per la continua battaglia de’ pensieri e degli abbondanti sospiri, i quali i suoi sonni contrastavano. Ma dopo lungo andare, la gravata testa prese temoroso sonno; e infino alla mattina, forse con battaglie non minori nel suo dormire che essendo desto, si riposò. Oimè, quanto è acerba vita quella dell’amante, il quale dubitando vive geloso. Infino a tanto che Procris non dubitò di Cefalo, fu la sua vita senza noia, ma poi che ella udí al male rapportante servidore ricordare Aurora, cui ella non conosceva, fu ella piena d’angosciose sollecitudini, infino che alla non pensata morte pervenne. Venne il chiaro giorno, levossi Florio; il quale per lo lieve sonno dimenticati non aveva gli angosciosi pensieri, e levato, non uscí della trista camera, sí come era l’altre mattine usato; ma in quella stando, si tornò sopra i pensieri del di preterito; e in quelli dimorando, il duca, che per grandissimo srazio atteso l’aveva, entrò nella camera dicendo:«Florio, leva su, non vedi tu il cielo che ride? Andiamo a pigliare gli usati diletti». E quasi ancora di parlare non era ristato, che, rimirandolo nel viso, il vide palido e nell’aspetto malinconico e pieno di pensieri, e i suoi occhi, tornati per le lagrime