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130 | il filocolo |
per quella vittoria che tu giá sopra i figliuoli della terra avesti, e per tutte l’altre, che tu sia a me favorevole aiutatore, però che io non cerco, sí come vedi, di volere per la presente battaglia possedere né acquistare la vostra celestiale casa, né intendo di levare a Giove la santa Iunone; né similmente è mio intendimento d’occupare la fama delle tue grandi opere, ma col tuo medesimo aiuto d’accrescerla, e solamente cerco di difendere la vita di Biancofiore ingiustamente condannata a morte. E tu, o santa Venus, nel cui servigio io sono, aiutami. Io vo piú ardito per la promessa che con la tua santa bocca mi facesti. Non mi dimenticare: mostrisi qui quanto la tua forza possa adoperare. E similemente tu, o santa Giunone, donandomi il tuo aiuto, consenti che io vincendo faccia manifesto il malvagio inganno, il quale questi iniqui, contro a’ quali ora vo, copersero col tuo santo uccello, non serbandoti la debita reverenza. E voi, qualunque deitá abitate ne’ celestiali regni, siate al mio soccorso intente; e massimamente tu, Astrea, la cui giusta spada il mio padre intende di sozzare con innocente sangue, aiutami». E cosí dicendo e tutt’ora cavalcando, pervennero al dolente luogo per lungo spazio avanti dí: e quivi il nuovo giorno aspettarono.
La misera Biancofiore, non sappiendo perché con tanto furore né perché sí subitamente presa fosse, quasi tutta stupefatta, senza alcuna parola, sostenne la grave ingiuria, entrando nell’oscurissima e tenebrosa carcere; la quale serrata, acciò che nulla persona materia avesse di poterle in alcun modo parlare, a cui ella scusandosi poi la sua scusa ad altri porgesse, il re prese a sé la chiave. E dimorando lá entro Biancofiore, niuno sí picciolo movimento v’era che forte non la spaventasse, e le varie imaginazioni, che la fantasia le recava inanzi, le porgevano molta paura, e ’l suo viso impalidito, anzi smorto, non dava alcuna luce nella cieca prigione; onde ella per grave doglia incominciò a piangere e a dire: «O me misera, quale può essere la cagione di tanta ingiuria? Di che ho io offeso? Certo in niuna cosa, che io sappia. Io mai né con parole né con operazioni offesi la reale maestá, e la reina mia cara donna